Normalmente collocato nella sede della vecchia Direzione provinciale delle Poste, l’ufficio Conti Correnti era preposto al controllo delle centinaia di bollettini postali che affluivano quotidianamente per essere vidimati, autorizzando così i pagamenti richiesti; centinaia di operazioni di “sfogliamento”, così si diceva nel gergo postale, che consistevano in una puntigliosa e attenta verifica delle somme vergate per lo più a mano da calligrafie sciolte nei vecchi inchiostri di un tempo.
I dipendenti delle Poste chiamati a questo compito delicato sorvegliavano in realtà flussi di denaro destinati a incrementare l’economia del Paese e renderla più dinamica, consentendo una maggiore circolazione del credito e una migliore distribuzione delle risorse finanziarie. Mentre computavano cifra su cifra, per avere un riscontro dei totali da far quadrare, chissà se impiegate e impiegati erano consci dello scopo dell’attività che stavano compiendo con tanta cura e del contributo che indirettamente fornivano al sistema economico del Paese..
Il decreto luogotenenziale che aveva istituito il “servizio dei conti correnti e degli assegni postali” e relativo regolamento risaliva al settembre del 1917. Proprio lo scenario economico interno ridisegnato dalla Prima guerra mondiale aveva reso necessario uno strumento, giudicato prezioso, di circolazione del denaro che rendesse “possibile e facile ad ogni ordine di cittadini” – si legge nella prefazione al decreto – “di eseguire pagamenti senza il materiale uso della moneta, sia essa in carta o in metallo”. L’idea era semplice e in tutta evidenza efficacissima: chiunque volesse servirsi dei conti correnti e degli assegni postali doveva semplicemente versare le somme che riteneva di dover “movimentare” nel primo ufficio postale disponibile e utilizzando una modulistica appositamente studiata poteva far circolare il proprio denaro in versione completamente “de-materializzata”. L’esperimento funzionò subito. Il nuovo istituto come ebbe a dire un esperto del settore, già funzionario per molti anni nell’Amministrazione postale, Torquato Carlo Giannini, metteva “in rete”, si direbbe oggi, singoli correntisti e azienda pubblica, le Poste in questo caso, e i correntisti stessi fra loro, generando un circuito virtuoso di movimento di denaro che implementava le casse dello Stato e consentiva al grande industriale come al piccolo commerciante di estinguere rapporti di debito e credito con semplici movimenti senza bisogno di un effettivo pagamento; senza dubbio una piccola rivoluzione sul piano finanziario.
In Italia gli uffici dei conti correnti erano appena quattro nel 1920 (Roma, Bologna, Trieste e Napoli); nel 1929, quando il servizio fu riorganizzato diventarono nove (con l’apertura di Milano, Bari, Palermo, Genova, Torino), e a questi sul principio degli anni Trenta si aggiunsero Cagliari, Venezia, Firenze, Trento, Ancona e persino Tripoli. Nell’esercizio 1920-21 il numero dei correntisti era di appena 7029 titolari, ma nel 1927-28 era già salito sopra i 39.000. Il servizio offriva indiscutibili vantaggi e a fronte della crisi internazionale successiva al crollo di Wall Street nel 1929 una fluida gestione delle proprie liquidità non poteva che avvantaggiare le aziende che ne facevano uso: imprese commerciali e industriali, enti culturali, istituti religiosi, sindacati, istituti bancari, scuole, enti esattoriali e via dicendo. Nel 1938 il numero complessivo delle operazioni raggiunse il tetto dei 34 milioni e lo superò per un importo complessivo di quasi 35 miliardi di lire. Lo sviluppo del servizio dei conti correnti postali armonizzava le funzioni dei più perfezionati servizi bancari, esercitando un’influenza rivitalizzante sui fattori di stabilità economica della nazione, generando benessere sociale e sostituendo di fatto lo Stato agli organismi del credito privati. Nel secondo dopoguerra i conti correnti continuarono a svolgere la loro opera di veicolo insostituibile per la circolazione del denaro, mantenendo inalterata lo loro originaria funzione. Nel 1952 il numero delle operazioni era di oltre 89 milioni per più di 3.778 miliardi di lire e il trend in ascesa non accennava certo a diminuire. Vent’anni dopo, nel 1972, la relazione per l’anno finanziario delle Poste ci restituisce un dato di 320 milioni di operazioni per un ammontare di ben 53.733 miliardi di lire. Nel 1985, il movimento complessivo a debito e credito arriva a quasi 520 milioni di operazioni e il totale delle somme relative raggiunge la vertiginosa soglia dei 592 miliardi di lire.
In questo modo le Poste seppero dar corpo a parte della vita economica italiana contribuendo non soltanto al buon andamento della macchina statale, attrice principale, all’epoca, della gestione di quei flussi finanziari, ma delle infrastrutture produttive stesse rappresentate da aziende e imprese di tutte le dimensioni. Nel corso degli anni l’imponente mole delle operazioni in conto corrente aveva implicato l’aggiornamento delle strumentazioni tecniche utili a garantirne il buon funzionamento; i vecchi uffici, dentro ai quali gli impiegati postali avevano diligentemente svolto la loro attività, vennero sostituiti da Centri compartimentali per i servizi di Bancoposta (Ccsb) e da Centri elaborazioni dati (Ced) che governavano con i primi moderni mezzi informatici l’intero sistema nazionale dell’accreditamento tramite conto corrente postale. Se da un lato, al mutare degli scenari economici internazionali, i recenti servizi di Bancoposta hanno fatto, e in particolare del conto corrente on line, un agile strumento al passo con i tempi quanto a fruibilità all’interno di un contesto di mercato ben diverso da quello dei decenni passati, il bollettino postale non sembra aver perso la sua proverbiale efficacia.
Aveva ragione Giannini, dopotutto, quando nel lontano 1918, non appena il nuovo servizio si affacciò timidamente sulla scena nazionale, aveva detto: “Basta pensare che se tutti i cittadini fossero correntisti, sarebbe soppressa la necessità della moneta circolante, giacchè tutte le operazioni si farebbero per mezzo di compensazione”.
(Mario Coglitore)